Gianni Vattimo, la vita e il senso della sua opera. Che Cazzullo ne dica
Nato a Torino nel 1936 da un poliziotto calabrese e da una sarta torinese, Gianni Vattimo ci ha lasciati senza smentire, con le movenze tristemente buffe del parkinsoniano, il destino tragico di uomo che lo ha sempre accompagnato. Suo padre morì quando aveva un anno e mezzo, e per sfuggire agli orrori dei bombardamenti la madre e la famiglia si trasferirono dal ’43 al settembre del ’45 a Cetraro, in Calabria, per poi fare ritorno a Torino.
Allievo di Luigi Pareyson come Umberto Eco e Mario Perniola, si baloccava con l’idea di essere più intelligente del grande semiologo e romanziere. Questa nota di aneddotica la riprendo da un coccodrillo di Aldo Cazzullo, pubblicato il 20 settembre, che reputo sinceramente imbarazzante: agli effetti della considerazione pubblica è senz’altro lecito bilanciare note sugli studi filosofici con l’uomo mondano, fulminante nei giudizi, sapido e malignetto, che certamente è stato; ma raffigurare Vattimo come la più geniale malalingua dell’ambiente cultural-industriale torinese, significa in realtà suggerire sottilmente non la fine della Filosofia in generale (tante volte proclamata con fanfare luttuose, la si è poi ritrovata vivissima e piena d’energie in qualche altra parte del mondo) ma della sua, il cd. pensiero debole, che forse Cazzullo non ritiene degna di sopravvivere al suo inventore. Qui, invece, cerchiamo di commemorarlo in modo meno sbrigativo.
Gianni Vattimo, erede legittimo (e critico) di Pareyson
Pareyson lo preferì sistematicamente ad Eco, tanto da lasciargli la cattedra di Estetica di Torino mentre Eco veniva smistato su Milano. Eppure Vattimo non risparmiò al suo grande e cattolicissimo maestro nessuna delle sue disorientanti giravolte: dall’Azione Cattolica, sotto l’ l’influsso del personalismo di Maritain, Mournier e della narrativa di Bernanos al Partito Radicale negli anni Settanta, candidato – come lui stesso ha raccontato – in quota FUORI, sigla che per chi lo ignorasse, si deve al patriarca del movimento gay italiano Angelo Pezzana quando Mario Mieli ne era uno degli intellettuali più promettenti. FUORI stava per Fronte Unitario Omosessuali Rivoluzionari. Dai Democratici di Sinistra, con i quali fu eletto parlamentare europeo, ai Comunisti Italiani di Marco Rizzo, insomma: nulla si risparmiò Gianni – nome di battesimo Gianteresio – Vattimo, e nulla risparmiò al suo mentore.
La storia definitiva del rapporto fra Pareyson e Vattimo ricorda non poco quella del rapporto fra il grande storico delle religioni Mircea Eliade e il suo allievo “maledetto” Ioan P. Couliano. Entrambi questi “maestri” sono stati legati a doppio filo ai loro prediletti, con una paternità e una pederastia simboliche (e non c’interessa quanto, quest’ultima, anche letterale: meglio volare alto sopra il cicaleccio); ancora irrigiditi da un’educazione tradizionale, inibiti e repressi ma già abbastanza evoluti da riconoscere motivazioni recondite dentro di sé, tanto Pareyson che Eliade si proiettavano nell’indisciplina e nella ribellione di questi allievi, la cui intelligenza magari sovrastimavano, così come sovrastimavano l’intensità e la reale importanza della loro rivolta contro ogni forma di classicismo normativo.
La filosofia? un gioco di specchi che mostra la coscienza quale enigma continuo
Dobbiamo comunque essere grati a Vattimo, alla sua opera, poiché ci ricorda che la Filosofia è un gioco di specchi: svariate importanti correnti (empirismo e pragmatismo) enunciano teoreticamente la centralità del dato concreto, ma appunto in forma teorica. Se ci spostiamo anche lievemente di senso, e chiamiamo il dato e la concretezza “azione”, ecco intervenire la volontà o il suo opposto, la nolontà, ovvero fenomeni provenienti dalla coscienza che sono, di nuovo, enigma per la Filosofia. Questo gioco di specchi, che in Occidente prosegue da venticinque secoli, muove convenzionalmente dalla scoperta, e dal conseguente primato del logos e del theorein sulla praxis e sulla poièsis. Senza troppo approfondire dato che ciò ci porterebbe lontano, in un passaggio chiave della riflessione antica, il platonismo, è apparso chiaro che una certa azione che reputiamo buona – prima ho accennato difatti alla sfera della volontà – deve rimandare ad un concetto di Bene che gli stia sopra e, cosa ancor più importante sia astratto, cioè della stessa natura degli astri, e che stia alle azioni buone nello stesso rapporto con cui gli astri stanno alle cose: oggetti, animali, esseri umani avrebbero, quindi, una certa similitudine con gli astri e i loro rapporti reciproci.
Gianni Vattimo e il pesniero debole
Ebbene per Vattimo questo è un esempio di pensiero forte. Un pensiero cioè che pretende di descrivere il mondo delle cose attraverso uno o più fondamenti, e regole poste da questi fondamenti per ogni tipo di funzionamento di cose e di rapporti fra cose. Il pensiero debole, al contrario, ci porta a rinunciare a qualsiasi tipo di fundamenta inconcussa e a considerare falsa ogni teoria che pretenda di essere vera, assolutamente e fuori dal tempo. Altro esempio potrebbe essere il concetto aristotelico di Motore Primo Immobile, sole metafisico dell’universo, soprattutto per la sua qualità di indifferenza. La pretesa che questo Motore Primo sia indifferente all’amore degli esseri, quale si esprime mediante il movimento circolare ed eterno intorno ad esso è, per Vattimo, inaccettabile prima ancora che impensabile. Tutte le relazioni fra corpi, o fra concetti indifferentemente, sono biunivoche: è inconcepibile che ciò che muove non sia mosso in qualche modo. Questo mette ovviamente e radicalmente in crisi la visione tomistica e razionale di Dio: Vattimo non respinge soltanto il razionalismo filosofico, ma con ancora maggior decisione la teologia razionale.
Il filosofo avversava la drammaticità del cristianesimo secondo la visione di Pareyson e di Sergio Quinzio: ma se un cristianesimo senza gerarchia e senza clero è pensabile, senza Croce e Golgota equivale alla pretesa che il cristianesimo si auto-dissolva – conciliare Nietzsche e il cristianesimo non è il frutto del pensiero debole, ma a mio modesto avviso una contraddizione in termini.
Forse il successo del pensiero “debole” alla metà degli anni Ottanta (Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti) non si compendia in una perdita del centro ma piuttosto in una perdita del senso, che autorizza il chiamare filosofia praticamente qualsiasi cosa. Gioverà anche qui fare un esempio: una nozione non-gnoseologica come quella di democrazia intende abolire la verità e la possibilità della verità: la pretesa forza della verità in quanto escludente (la verità espelle il falso con il suo solo mostrarsi) sarebbe intrinsecamente violenta e causa di violenze.
Il contesto in cui esordì il Pensiero debole. Gli anni ’80, dalla contraddizione irrisolta tra materialismo e metafisica al post-umano
Qui sorge il dubbio: e se fosse il contrario? Se lo “spettacolo” della verità fosse intollerabile agli occhi umani, perché con il suo solo apparire renderebbe irrefutabile il riconoscimento dei nostri infiniti errori, questo negherebbe automaticamente la possibilità stessa di una società di pari, uniti non dalla pia intenzione di costruire il “bene comune” ma dalla comune avversione per l’errore? La democrazia è impossibile in una società guidata effettivamente dalla ricerca della verità?
Storicamente gli anni Ottanta sono quelli in cui nel mondo si decide di smettere di pensare all’olocausto nucleare, provocando così la fine della guerra fredda – pure, una riflessione approfondita su quella sorprendente sequenza di eventi (la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ecc.) avrebbe dovuto portare ad una nuova concezione della volontà collettiva come potenza occulta, inesprimibile ma efficace. Nella visione di Vattimo diventa debole anche l’essere cristiano e comunista, senza affatto cercare di risolvere la contraddizione fra materialismo e metafisica.
Fra “superuomo” nicciano e vattimiano “oltreuomo” c’è forse un terzo corpo: l’ “ultrauomo”. Questa nuova entità, ancora sconosciuta alla ricerca filosofica, può trasvalutare tutta la morale, ben consapevole delle incongruenze del cristianesimo nella Storia quando, ad esempio, pur di ottenere conversioni si è avvalso della brutalità del “braccio secolare”, semplicemente voltandosi dall’altra parte; ma non per questo anzi, neanche per questo condanna – come fa il Nietzsche – la cristiana come religione per deboli. Qui mi sento di concordare con Vattimo: se anche il cristianesimo fosse sorto e si fosse diffuso per azione degli schiavi e delle matrone, non si sarebbe dimostrato più forte dell’impero civile, sostituendosi ad esso?
Il concetto di ultrauomo si spinge ancora più in là, finendo per somigliare a quello di post-human del manifesto di Robert Pepperell negli anni Novanta. L’essere umano ha toccato l’apice delle sue possibilità evolutive; è tempo che si faccia da parte e permetta l’emersione del post-umano, del quale potrebbe essere esempio l’ibrido uomo-macchina.
In Vattimo, quindi, il concetto di “deriva destinale dell’essere” è solo contingente. Con-tinge l’essere di individualità e discaccia gli “universali” come residuo del medioevo e della Scolastica. Cade l’idea di una razionalità centrale e centrata. E sorge così il sospetto che l’outing del filosofo sulla propria omosessualità sia da considerare come un passaggio dell’anti-sistema della filosofia debole.
Gli ultimi anni di Vattimo: L’imitazione di Nietzsche come Imitazione di Cristo
Negli ultimi anni di Vattimo emerge prepotentemente il tema della malattia – il morbo di Parkinson – e il patetismo del pensatore divenuto “incapace d’intendere e di volere”. Demenza, tremori e interdizione, col finale processo all’ultimo compagno Simone Caminada per “circonvenzione d’incapace”, può essere letto suggestivamente come un’imitazione di Nietzsche, al pari dell’ Imitazione di Cristo di Ignazio di Loyola.
Come Vattimo, sono a mia volta convinto che la società attuale sia pervertita oltre ogni misura. Chi parla più della nobiltà della povertà filosofica, sul diritto “divino” del filosofo di essere mantenuto a spese della comunità, in contrasto con le professioni “venali” e la casta commerciale?
È vero: alcune prese di posizione politiche del tardo Gianni Vattimo sono state discutibili, come il desiderio espresso di vedere piovere su Israele missili ben più potenti dei rozzi Qassam di Hamas. Ho però la sensazione che non sarà ricordato particolarmente per uscite di questo genere. Il pensiero va alla sua estrema maturità, al “credere di credere”: nella sua Storia, il cristianesimo è stato davvero questo rovesciamento delle persecuzioni “adversus christianos” in intolleranza “adversus atheos”? Se così fosse, la religione dovrebbe essere bandita dalle società democratiche come attività criminale. Cosa ne è allora dei fondamentali concetti di “amore divino”, di “agape”, e cosa accade con la virtù teologale della “Carità”?
Nella prospettiva post-modernista le contraddizioni sono così macroscopiche da rendere insostenibili le medesime premesse del pensiero debole. Ma esso ritiene di superare la sua stessa confutazione, derivante dall’insanabile contraddittorietà dei suoi effetti, includendo tutto, affermando che il soggetto è plurale e “locale”, predicando lo “svuotamento” (kenosis).
Dopo lungo erramento quindi, torniamo all’ inno paolino (Lettera ai Colossesi) dedicato al Figlio di Dio umiliatosi sulla Croce, riscattando il simbolo infamante del supplizio degli ultimi, dei ladri e dei ribelli alla potenza di Roma – per dirla con le parole di Pasternak:
Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò
e, come le zattere discendono i fiumi,
in giudizio, da me, come chiatte in carovana,
affluiranno tutti i secoli dell’umanità.
Forse questo essere indebolito e poroso è stato – più di altre filosofie – tanto vicino alla realtà degli individui da scorgere come principale male contemporaneo il senso dell’ inadeguatezza.
Qui si riaffaccia la dimensione politica e la riscoperta, grazie all’ermeneutica, degli angoli riposti, negati o rimossi della Storia. L’incontaminato, in altre parole, delle comunità originarie. In molti desideriamo ritrovare il cristianesimo delle origini, la purezza rivoluzionaria dei comunisti, la fine del capitalismo disumanizzante: quest’ultima possiamo non smettere di volerla. Meno possiamo agire per essa, con la pistola del capitalismo puntata alla tempia: il ricatto economico/finanziario incombe su tutti noi.
L’epitaffio che Gianni Vattimo ha voluto sulla propria tomba ha, alla fine, un significato forte: “Io fui debole”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA